Casi giudiziari e fuga di notizie, una spiacevole abitudine italiana.

In quest’ultimo periodo hanno suscitato grande scalpore le dichiarazioni rilasciate da Luca Palamara, ex Pubblico Ministero e componente del Consiglio Superiore della Magistratura, il quale ha svelato alcuni importanti retroscena che governano il rapporto tra Toghe e Mass Media.

In particolare, Palamara racconta che diversi esponenti della Magistratura intrattengono stretti rapporti con la Stampa nazionale, la quale riceve informazioni riservate – spesso in anteprima –  relative ai casi e ai procedimenti giudiziari che più catturano l’interesse pubblico, assumendo ampia rilevanza anche in ambito sociale e politico.

A riprova delle proprie affermazioni, lo stesso Palamara racconta di essere venuto a conoscenza di una delle inchieste che lo riguardano attraverso la stampa e infatti la notizia veniva pubblicata da un giornalista prima ancora della comunicazione ufficiale allo stesso Palamara, poiché il giornalista aveva ricevuto la notizia prima dell’illustre indagato.

 

La stessa dinamica si è poi ripetuta nella vicenda che vede coinvolto l’imprenditore Alberto Genovese. Infatti, è notizia di pochi giorni fa che gli investigatori hanno scoperto e posto sotto sequestro alcuni video, che un uomo e una donna – tecnici di una società incaricata dalla difesa per una consulenza tecnica –  stavano cercando di duplicare al fine di rivenderli ai giornali e lucrare così sulla vicenda giudiziaria del noto imprenditore.

Al di là dei singoli episodi, è un dato di fatto che i casi di cronaca più eclatanti portino con sé una sistematica fuga di notizie del quale l’opinione pubblica sembra avere continuo bisogno, incoraggiando così sempre di più i media alla ricerca estrema dello scoop. Infatti è tipicamente italiana la “moda” delle trasmissioni televisive che rivelano dettagli dei crimini – con tanto di foto sensazionali – nonostante gli stessi dovrebbero essere riservati e coperti da segreto istruttorio. Una situazione che al di fuori dei talk show, ha interessato anche un il Dott. Curzio, ex Primo Presidente della Corte di Cassazione, il quale ha presentato ampia e motivata denuncia.

Il rapporto tra magistratura e stampa e, quindi, l’equilibrio tra segreto istruttorio e diritto di cronaca, è un tema delicato, in cui si scontrano diverse esigenze, tutte però legate a diritti fondamentali di ogni individuo. Non vi è dubbio che la Carta costituzionale, in questo senso, considera e garantisce almeno tre diritti fondamentali che devono essere rispettati; in particolare il diritto alla difesa, ed il diritto di informare ed essere informati. Per questo quanto un procedimento penale attira l’attenzione dei media, è necessario operare un bilanciamento tra i diritti costituzionali in gioco, ovvero il principio di non colpevolezza, il diritto alla privacy e il diritto di informazione/cronaca. Raggiungere un reale bilanciamento non è affatto semplice, tenuto conto che tutti i diritti hanno pari tutela nel nostro ordinamento.

Sicuramente le continue fughe di notizie non agevolano il lavoro dei magistrati, atteso che si trovano a dover prendere decisioni delicate, in grado di incidere e determinare la liberà personale di ogni individuo, sotto una innaturale pressione mediatica. Pressione che pare concentrarsi prevalentemente sulla fase iniziale del processo penale, la fase di indagine che, proprio per la sua delicatezza, è coperta per legge dal più ampio e rigoroso segreto istruttorio; diversa invece la fase dibattimentale del processo che per sua stessa natura è sempre pubblica, fatte salve alcune specifiche eccezioni.

Ricordiamo sempre che chi divulga o pubblica atti di un procedimento penale, di cui per legge sia vietata la divulgazione, non solo lede i diritti delle parti coinvolte nel processo, ma si rende colpevole di un reato previsto e punito dal codice penale all’articolo 684 e dal codice di procedura penale all’articolo 114.

A tal proposito, ancor più rilevante però è il danno arrecato all’imputato o indagato, che sia colpevole o meno. Infatti l’ordinamento italiano garantisce a livello costituzionale il principio di non colpevolezza, secondo il quale ogni individuo è innocente finché non vi sia una sentenza definitiva di condanna (art. 27 Cost.). Ma la diffusione sempre più incessante di dettagli delle indagini oppure di indizi decontestualizzati tra loro, conducono ad una inevitabile inversione del principio di presunta innocenza dell’imputato, già condannato mediaticamente fuori dalle aule di tribunale.

Per tutte queste ragioni, il legislatore ha più volte pensato ad una riforma che potesse quantomeno arginare se no porre fine a tali condotte, ma è un progetto che allo stato non ha ancora avuto una reale traduzione normativa. Non sarebbe però sufficiente disporre di un più ampio ventaglio di fattispecie normative o condotte punibili, strumenti che si rivelerebbero inutili senza una più rigida e puntuale applicazione di quelle stesse norme; e ancor più inutili finché non vi sarà una vera e propria riforma culturale che induca i media a generare e divulgare informazione di qualità e in grado di rispettare il più possibile i diritti costituzionalmente riconosciuti e garantiti.